
Non capita tutti i giorni di leggere un saggio su un tema che, a dire il vero, non è molto conosciuto dal pubblico tranne che da coloro i quali si trovano a frequentare il Monte di Pietà perché costretti dal bisogno.
I non più giovanissimi ricorderanno la performance di Rod Stiger nel film L’uomo del banco dei pegni, ricostruzione amara di un uomo che dedica la sua vita a un mestiere a dir poco antipatico perché concepito al solo fine di approfittare delle disgrazie altrui.
L’attività di prestare soldi in cambio di un interesse, o peggio, ricevendo in garanzia un oggetto al quale si è particolarmente affezionati, oltretutto con la probabile prospettiva di non poterne più riacquistare la disponibilità, è stata considerata dalla Chiesa per un lungo periodo come grave
peccato.
Poi, con il passare del tempo, anche la religione cristiana scopre che il denaro non è solo opera dei mercanti del tempio ma, se usato con discernimento, rappresenta quei talenti che il Signore invita a far fruttificare allo scopo di conseguire il bene comune. Non solo ma, secondo l’etica protestante, così magistralmente descritta da Max Weber in un famoso saggio, la ricchezza sarebbe addirittura il segnale della predestinazione alla salvezza.
Questi concetti sono noti alla maggior parte dell’opinione pubblica.
Quello che invece non era così scontato, e che il libro di Rossella de Rita ci fa scoprire, è che se il denaro comincia a perdere i suoi connotati “diabolici”, per assumere il ruolo più consono di strumento di scambio, è anche grazie a un’istituzione come quella del Monte di Pietà.
Quali sono le ragioni alla base di questo cambiamento?
La risposta sta nello sviluppo del commercio e nel successivo avvento della società industriale che rendono sempre più evidente l’impossibilità di concedere prestiti a interesse zero senza correre il rischio di perdere il capitale. Ecco allora che, se le persone benestanti bisognose di un prestito possono ipotecare le proprie abitazioni, le garanzie fornite dalle classi meno abbienti sono per forza di cose limitate agli oggetti personali, compresi quelli che sono legati a ricordi affettivi e di cui non ci si vorrebbe mai privare.
L’istituto del Monte dei Pegni si fa risalire alla fine del 1400 come atto di carità verso i cristiani che volevano sottrarsi dall’usura. In quanto istituzione di origine religiosa, la storia di questa banca è strettamente legata a quella della capitale in quanto sede dello Stato Pontificio, anche se dopo l’unità d’Italia diventa pressante l’esigenza di una disciplina a livello nazionale.
In quest’ottica, al Monte dei Pegni viene riconosciuta una natura mista tra assistenza e previdenza che in un certo senso diviene l’embrione del moderno welfare state.
Oggi il pegno rinvia alla norma del codice civile che ne disciplina la funzione di diritto reale di garanzia del debitore e alle defatiganti procedure vissute nelle aule giudiziarie dove gli interessi dei creditori e quelli dei debitori stentano a trovare una sintesi soddisfacente per entrambi.
Dietro la concessione in pegno di un oggetto personale si nasconde a volte un’imprudenza ma, nella maggior parte dei casi, un effettivo bisogno. Ecco perché, nel presente, il pegno è soprattutto il segnale di una crisi economica con tutto quello che c’è dietro in termini di disoccupazione, cassa integrazione e precariato.
Ecco perché l’opinione pubblica tende ad assimilare il pegno all’usura senza considerare che, se oggi questa piaga è stata oggetto di una regolamentazione severa, si deve forse anche a questa istituzione.
C’è da chiedersi poi quale sarebbe la sorte di tante persone senza il salvagente del Monte di Pietà che concede prestiti necessari a superare anche momentanee esigenze di liquidità.
C’è da chiedersi inoltre se le basi d’iniziative del volontariato come quella del micro credito o del commercio equo e solidale o del Banco Alimentare non abbiano le loro radici nella finalità di assistenza e beneficenza che sono state a fondamento della legge che verso la fine dell’800 ha disciplinato questa istituzione.
Attraverso una ricostruzione storica molto puntuale, l’autrice viene a sfatare alcuni dei luoghi comuni legati al sistema del pegno come garanzia per il rimborso di un credito, senza tuttavia minimizzare in alcun modo il dramma di coloro che sono costretti a impegnare i propri beni per pagare i debiti. Quello che sembra emergere dalla lettura delle pagine è che questa istituzione non ha rovinato tanta povera gente ma, al contrario, l’ha aiutata concretamente.
Per il momento e prima di avventurarci nel futuro godiamoci le pagine che ci narrano di un passato a volte drammatico e nello stesso tempo affascinante dove attraverso il sistema bancario, di cui il Monte di Pietà fa parte a pieno titolo, sono state create le basi del moderno capitalismo, sistema molto efficiente nel creare ricchezza ma che non ha trovato ancora il sistema per distribuirla in modo equo e sostenibile.
La ricchissima bibliografia dimostra quanto faticoso sia stato il lavoro dell’autrice e quanto minuziosa la sua ricerca.
Ora che la crisi economica è particolarmente pungente, il lavoro di Rossella de Rita suscita interrogativi sui valori del capitalismo e sulle ferree regole del mercato.
Se si può dire che, tutto sommato, il Monte di Pietà ha nel passato svolto un ruolo positivo c’è da chiedersi se questa istituzione sia adeguata a fronteggiare i cambiamenti tumultuosi che stanno sconvolgendo l’economia.
Certo se le forze politiche si decidessero di mettere mano in modo organico a una profonda riforma del welfare state, in modo da sostituire al concetto di beneficenza quello di un sistema organico di diritti e doveri, il lavoro di Rossella de Rita potrebbe dare un valido contributo.
Aldo Abenavoli
(Consulente legale)
I MONTI DI PIETA’
TRA ECONOMIA SOCIALE E CAPITALISMO
di Aldo Abenavoli