presS/Tletter n.05-2008
LA STORIA IN PILLOLE di Rossella de Rita
La crisi del 1929
Nelle ultime settimane si guarda con preoccupazione alla situazione economica americana che sembra, secondo alcuni, paragonabile alla famosa crisi del ’29, che modificò profondamente il quadro economico mondiale. Al riguardo non vogliamo emettere giudizi ma solo evocare alcuni fatti storici ed economici che quella crisi provocarono.
In linea del tutto generale le economie europee degli anni ’20 possono essere divise in quattro categorie:
Regno Unito, Belgio, Svizzera, Germania e Olanda in cui almeno il 40% della forza lavoro era impiegata nell’industria;
Francia, Cecoslovacchia, Austria, Svezia, Norvegia e Danimarca che avevano compiuto progressi notevoli nello sviluppo dal settore primario al secondario e terziario, e in cui la popolazione attiva era distribuita in maniera pressoché uguale tra i diversi settori;
Italia, Portogallo, Grecia, Spagna e Ungheria in cui la quota della forza lavoro agricola era ancora al 50% e, tranne che in Italia, la quota dell’industria era ancora inferiore al 25%; i Paesi dell’est e dell’Europa centrale ancora prevalentemente agricoli.
Uscite dalla guerra la maggior parte delle economie europee avevano fatto passi da giganti nel riassestamento economico. Erano cresciute sia la produzione industriale che quella agricola, le monete erano state nuovamente stabilizzate e riagganciate all’oro, ripristinando una delle condizioni indispensabili allo sviluppo degli scambi internazionali.
La guerra aveva però portato allo scoperto e aggravato alcuni problemi già esistenti. In particolare, in Europa, la situazione era molto diversa per la Gran Bretagna la cui economia era fortemente dipendente dalle esportazioni. Durante e dopo la guerra, i suoi mercati si restrinsero a seguito di vari fattori, inclusa la crescita di prodotti sostitutivi delle importazioni in molti mercati tradizionali, come il Canada, l’Australia, l’India e l’Europa occidentale. Si accentuò inoltre la concorrenza di paesi come il Giappone e gli Stati Uniti. Alcune tendenze si erano manifestate già prima del 1913, ed erano del tutto normali in un paese in cui la rivoluzione industriale si era verificata con tanto anticipo rispetto ad altri. La guerra finì per accelerare un fenomeno già in atto: gli operai furono arruolati nelle forze armate, la produzione fu modificata per adattarsi alle esigenze belliche, le importazioni di materie prime per la produzione di beni d’uso civile furono rigidamente limitate. I risultati inevitabili dell’impossibilità inglese a adattarsi correttamente alla concorrenza estera furono un eccesso di capacità, pesanti perdite ed elevata disoccupazione. In settori come la siderurgia e la cantieristica, danni ancora più gravi furono dovuti all’aumento di capacità produttiva effettuato per fornire armamenti e altri prodotti d’impiego bellico. In tempo di pace queste industrie restarono appesantite da un eccesso di capacità, costruito a prezzi gonfiati durante la guerra, e soffrirono d’elevati costi unitari e mercati depressi. Gravissima fu anche la crisi che colpì il mercato del carbone. Molti paesi un tempo importatori di carbone o avevano cominciato a sfruttare le proprie miniere o grazie al progresso tecnico utilizzavano surrogati. Sul fronte della domanda interna lo stato di depressione delle imprese, che maggiormente utilizzavano il carbone, non poteva che agire ancor più negativamente.
La produzione agricola europea non ebbe sorte migliore. I produttori agricoli si trovarono a dover fronteggiare un eccesso d’offerta d’alimentari sui mercati mondiali, determinato dalla continua espansione delle terre coltivate al di fuori dell’Europa, in paesi in grado di coltivare cereali e altri prodotti alimentari competitivamente e a costi inferiori.
All’eccesso d’offerta si contrappose una riduzione della domanda, provocando un continuo ribasso dei prezzi. Molti governi europei fecero ricorso a maggiori tariffe e ad altre misure protezionistiche per proteggere la loro agricoltura, arrivando fino all’autarchia sperimentata da Mussolini. Questi provvedimenti non riuscirono a proteggere le agricolture nazionali e preclusero la via verso una specializzazione regionale e un livello maggiore di scambi internazionali.
Dall’ultima parte degli anni ’20 la discesa nella Grande Depressione prese velocità in Europa, e in gran parte del resto del mondo.
Banchieri, uomini politici, industriali, agricoltori, si dimostrarono incapaci di reazione nell’affrontare il succedersi di crisi bancarie, gli stock crescenti di prodotti agricoli invenduti, il crollo dei mercati d’esportazione, le fabbriche abbandonate e le file sempre crescenti d’uomini e donne alla ricerca di un lavoro o d’assistenza.
Il collasso del commercio internazionale fu violento e rapido. L’imposizione di politiche deflative per mantenersi fedeli al gold standard gettò il commercio mondiale in una viziosa spirale al ribasso. Il problema fu esacerbato dal ricorso alle tariffe e ai controlli sui cambi, e all’impoverirsi di produttori alimentari, dovuto al crollo dei prezzi agricoli.