
presS/Tletter n.25-2010
LA STORIA IN PILLOLE di Rossella de Rita
Roma e la Chiesa per lo Stato italiano
Parlando di Roma capitale non ci si può esimere dall’affrontare la questione del papato, della Chiesa, del mondo cattolico. “La storia di Roma capitale d’Italia è piena di urti e di attriti, di accomodamenti fra i due poteri che si trovano domiciliati tra le due rive del Tevere” ( U. Pesci). La delicatezza della questione è ben chiara anche ai politici del tempo che ritengano non si possa trattare Roma e soprattutto le sue istituzioni religiose, cui sono molto legati gli interessi della classe nobiliare, come si tratta una qualsiasi altra provincia italiana. Solo gli sforzi della classe dirigente e il convergere di diversi interessi hanno reso possibile questa convivenza, coinvolgendo le forze cattoliche nella vita economica e politica del paese.
La definitiva caduta del potere temporale e la perdita degli ultimi possedimenti territoriali generarono per il Vaticano drammatici problemi di bilancio. Le entrate spirituali già da lungo tempo erano così scarse da non poter risolvere nessun problema; la somma prevista dalla legge sulle Guarentigie, non venne accettata dalla Santa Sede. Si cercò quindi di investire in banche italiane ed estere e, specialmente, in quelle interessate ad attività economiche della città di Roma.
Poche settimane dopo il 20 settembre fu disposta la laicizzazione delle opere pie e si inibì la vendita del patrimonio ecclesiastico. Quest’ultimo provvedimento, in realtà non fu rispettato e molte corporazioni religiose si affrettarono a vendere, spaventate dall’applicazione, anche a Roma delle leggi eversive sull’asse ecclesiastico.
Nel 1873 fu promulgata la legge "per l’estensione alla provincia di Roma delle leggi sulle corporazioni religiose, e sulle conversioni dei beni immobili degli enti morali ecclesiastici". Il testo conteneva una serie di eccezioni e di delicatezze sconosciute alle leggi che nel 1866-67 avevano trattato la medesima questione nel resto d’Italia. Due principi basilari erano però rimarcati: le associazioni religiose non potevano avere personalità giuridica; la manomorta doveva cessare.
Le conseguenze della legge del ’73 furono notevoli. Il mercato immobiliare fu invaso da una serie di palazzi, terreni e possedimenti che dovevano essere venduti e questo fece abbassare notevolmente il prezzo degli immobili. I compratori fecero affari d’oro e tra questi spiccavano esponenti del patriziato romano, più strettamente legato agli interessi della Chiesa. Approfittando di una licenza pontificia, che autorizzava a partecipare alle aste, con la clausola di restituire i beni agli antichi proprietari al momento di una restaurazione temporale, Odescalchi, Barberini, Doria Pamphili e molte altre personalità del mondo politico e finanziario legato al Vaticano, diventarono i maggiori acquirenti nelle aste.
Lo stesso patriziato fu colpito poi dall’abolizione delle prestazioni feudali e molte delle grandi ricchezze nobiliari dovettero fare i conti con la libera concorrenza. Anche in questo caso l’unica scelta possibile era la vendita, con la differenza che i possedimenti all’interno della zona urbana avevano acquistato valore notevole. Dove furono investite le ricchezze così ricavate? Per lo più si diressero verso le istituzioni di credito e attraverso queste nelle opere di ingrandimento della città.
Nei consigli di amministrazione di banche e istituti di credito clericale esponenti delle famiglie Chigi, Borghese, Theodoli ebbero compiti di direzione e impegnarono le loro sostanze. Quando gli ambienti vaticani estesero la loro azione finanziaria in Italia furono ancora gli esponenti della vecchia feudalità a rivestire incarichi di primo piano. Fin dai primi anni di Roma capitale il mondo cattolico romano tese a spostare i propri interessi verso il sistema capitalistico italiano nonostante il non possumus o il non expedit papali.