
presS/Tletter n.27-2010
LA STORIA IN PILLOLE di Rossella de Rita
Roma è ladrona?
L’antico e spesso ripetuto “Roma ladrona” o la più recente rivisitazione del famoso SPQR, sono alcuni dei modi di percepire la capitale da parte della restante nazione.
Il nome di Roma e la volontà di nominarla capitale d’Italia è stato uno dei motori dell’unificazione italiana, che ha sostenuto le diverse forze in campo fino al 20 settembre 1870.
Come si spiegano due modi di vedere la città, susseguenti l’uno all’altro e tanto contrapposti?
Roma, per i patrioti italiani, doveva essere il centro del nuovo Stato per il suo passato di capitale universale, per il suo presente di capitale di uno Stato cattolico, per il suo futuro di capitale di uno Stato laico.
Il suo passato di capitale di un Impero era suggestivo e infiammava gli animi ma, sul piano pratico non offriva nessun tipo di aiuto.
Il suo presente di capitale dello Stato pontificio l’aveva resa centro del mondo cattolico, capitale religiosa ma, la politica dei papi l’aveva privata di quelle spinte verso il capitalismo proprie di altre città italiane.
Il suo futuro di capitale laica fu per lunghi anni frustrato dalla mancanza di volontà dei governi centrali di aiutare la città a costituirsi come il vero centro del Paese, dall’assenza di un indirizzo amministrativo, da uno sviluppo urbano caotico, dalla confusione tra compiti cittadini e nazionali, dal mancato riconoscimento di uno status particolare, proprio per la sua condizione di capitale.
Roma non aveva una sua struttura produttiva ma doveva porsi come la città della scienza e della cultura, la capitale neutra che, proprio per la mancanza di industrie non aveva masse di operai che avrebbero potuto mettere in imbarazzo i governi liberali. Una nuova città doveva affiancarsi all’antica (queste in sostanza le posizioni di Quintino Sella). Questo progetto implicava però la necessità di affrontare il problema di Roma, di innescare una discussione in Parlamento, di stanziare fondi per la nuova capitale. ”A vero dire il concetto che il governo debba venire in aiuto della città capitale a preferenza di ogni altra città del regno ha qualche cosa a prima vista che contraddice ai nostri abituali giudizi” (Marco Minghetti). La visione della maggioranza era quindi quella di una sorta di par condicio tra i Comuni italiani, indipendentemente dal loro ruolo. Questa volontà caratterizzò nei primi anni del Regno non solo la posizione dei governi ma anche la fantasia popolare che contrappose fortemente i romani ai buzzurri e non permise di affermare la particolare condizione della città, che non era un comune come gli altri ma la sede del centro della Nazione che doveva assumere un ruolo propulsivo.
Le diverse posizioni e, soprattutto, la mancanza di volontà di assumere decisioni necessarie a consegnare a Roma il suo ruolo di centralità nel governo del Paese, fu ravvisabile nel lungo e ripetuto rifiuto di nominare un sindaco effettivo (questi doveva essere nominato dal Re su indicazione del Ministero dell’Interno). Fino al luglio 1874 si avvicendarono diversi personaggi con la carica di facente funzione e permanendo nei loro compiti solo pochi mesi, creando amministrazioni instabili e turbolente.
Solo con l’affermarsi della Sinistra al governo nazionale il clima sembrò cambiare e, con Depretis, dichiarò un maggior impegno dello Stato nei confronti di Roma, si affermò l’idea che l’urbs che ha dominato il mondo non può risorgere nei limiti angusti del municipio.
Il rapporto tra città e Stato cambiò con gli anni ’90 dell’Ottocento nei quali furono emanate le leggi speciali che da un lato impegnarono il governo in un programma per la città, dall’altra posero Roma in subordinazione allo Stato. Il nuovo atteggiamento trovò una sua pratica applicazione nella sintonia di indirizzo che si instaurò, per un certo periodo, tra Giolitti e Nathan, che cercò di trasformare la città in un vero centro politico.