…comincerà cor fà aridà li pegni,
cor rivotà le carcere de ladri,
cor manovrà li soliti congegni…
Questo è ciò che il popolano di Giuseppe Gioachino Belli si aspetta dal papa neoeletto.
Tralascio il finale del sonetto
L’upertura der Concrave (ma invito a leggerlo…) per concentrare l’attenzione sulle iniziative che ogni vicario di Cristo metteva in atto per festeggiare la propria elezione: quella della restituzione dei pegni (solo quelli di scarso valore, s’intende!) era la mossa che quasi tutti i romani aspettavano con ansia.
Sia quelli che riottenevano i pegni, sia quelli che avrebbero in qualche modo tratto vantaggi da una maggiore disponibilità economica del popolo. Gli uni avrebbero innanzitutto avuto la possibilità di reimpegnare gli oggetti; agli altri sarebbero andati quei contanti: sotto forma di debiti saldati, o di acquisti: per la casa, per la persona, per i figli, per la sopravvivenza, o (ed era quasi la regola) in pagamento di pranzi, cene, gite e bisbocce varie.
Questa l’amara ma normale conclusione del sonetto di Belli
Er pranzo de li minenti:
…e io che m’ero creso
d’impiegà un prosperuccio-lambertini,
ciò impegnato a mi moje l’orecchini.
(Prospero Lambertini, papa Benedetto XIV emise la moneta che prese il suo nome)
Nel periodo preso in considerazione da Rossella de Rita, l’uso della restituzione era decaduto con la presa di Roma, ma l’abitudine di monetizzare gli oggetti per necessità diverse si è mantenuta e si mantiene (oggi più che mai…).
Quella che non si è mantenuta è una certa Roma: quella un po’ paesana, trasandata, forse più sporca, meno illuminata, più povera, sicuramente più vivibile.
In quella Roma hanno purtroppo e per fortuna convissuto persone che hanno distrutto inestimabili bellezze e altre che hanno fatto del tutto perché le stesse ricchezze venissero mantenute nel tempo attraverso una documentazione registrata e interpretata attraverso le Muse e che a volte risente dell’arretratezza dei mezzi, altre volte si alza a vette artistiche di valore universale.
Gli ultimi anni dell’800 hanno visto nascere, crescere e affermarsi uomini e iniziative che hanno lasciato un segno indelebile nella città.
Soffermandoci solo su alcuni fatti e personaggi, vediamo come due opposte concezioni abbiano inciso sul tessuto urbano e sociale in modo permanente.
La “modernizzazione” era l’imperativo urbanistico dei piemontesi che avevano occupato la città.
Ma il concetto, più che giusto, fu applicato nel peggiore dei modi.
Fu l’epoca degli sventramenti, della distruzione delle ville, degli argini del fiume, dello stravolgimento viario.
Pensiamo a ciò che fu fatto per far posto al monumento che più di ogni altro oggi ancora deturpa Roma: il monumento al Re.
Furono distrutte le case di Michelangelo, di Giulio Romano e di migliaia di romani, gli orti e il convento dell’Aracoeli, la torre di Paolo III, il passetto che collegava la torre a Palazzo Venezia, fu spostato il Palazzetto Venezia, distrutto il sepolcro di Bibulo per dare modo a un progetto sponsorizzato politicamente, approvato in maniera furbesca (il primo concorso fu invalidato, perché vinto da un francese…), eseguito con materiali che nulla hanno a che vedere con Roma.
Che cosa dire dell’apertura di Corso Vittorio? Un intero quartiere eliminato senza pietà.
E dei muraglioni che ingabbiano il Tevere, vogliamo parlarne? L’idea stessa di dare al fiume la medesima larghezza per tutto il tratto che attraversa la città; la distruzione insensata di case, palazzi, antichità e monumenti che si trovavano lungo il percorso di quelli che saranno poi i Lungotevere rende bene il concetto che si sarebbe applicato nella costruzione dei nuovi quartieri Prati ed Esquilino: Roma sarebbe dovuta diventare il più possibile simile a Torino! Pensate!
Le descrizioni dei luoghi da “risanare” registrate nei dettagli dei vari progetti erano univocamente tese a descrivere in maniera drammatica le abitazioni (…abituri degradanti…), le vie (…anguste, senza aria…), le case (…brutte e fatiscenti…): Roma era equiparata ad una città orientale. Tutto ciò pur di far apparire l’intervento del piccone demolitore, quasi come un gesto di pietà di amministratori saggi e umani nei confronti del popolo indigente. Peccato che il popolo indigente, deportato in periferia, non abbia gradito.
Per fortuna però in quello stesso periodo si affermava una filosofia che vedeva nella modernizzazione una via senza ritorno che avrebbe cancellato per sempre una certa Roma: ci fu chi, per fortuna, si impegnò nella ricerca, nella documentazione, nello studio, nell’illustrazione, di ciò che Roma era e non sarebbe più stata.
Questo atteggiamento di “mantenimento” coinvolse gli spiriti più aperti e allo stesso tempo più radicati al territorio, alle tradizioni, alla cultura.
Solo per fare qualche nome: Roesler Franz (nato a Roma da padre romano e da nonno svizzero-boemo), Zanazzo (di padre piemontese), Trilussa (di padre di Albano) Pascarella (romano doc).
Gente che si è interessata di tramandare Roma e la Romanità.
Attraverso le arti più diverse, ci è giunto un patrimonio di cultura che sarebbe scomparso definitivamente sotto i colpi del piccone e del modernismo (quello di Marinetti arrivò poco dopo…).
Quante volte ci siamo soffermati ad ammirare un acquerello di “Roma Sparita”? Quali sogni abbiamo fatto a occhi aperti nell’immaginare i luoghi e i personaggi illustrati?
Quali e quante ipotesi costruite su come si sarebbero potuti mantenere scorci e vedute, o come fosse la vera vita di tutti i giorni delle persone raffigurate?
Se Ettore Roesler Franz non avesse capito e agito, oggi non saremmo in grado di liberare la nostra fantasia guardando i suoi quadri.
Giggi Zanazzo ebbe la stessa intuizione e dedicò la sua vita a raccogliere, a catalogare, a scrivere. Tutto ciò che riguarda la cultura orale: dal proverbio alla poesia, dalla tradizione alla frase idiomatica, tutto fu scritto a futura memoria. La memoria della voce del popolo.
E Pascarella, e Trilussa? Interpreti di quell’anima che dall’epoca di Giovenale e Marziale ha fatto e continua a fare della satira un atteggiamento e un gusto tipicamente romano.
Il primo si dedicò anche alla poesia epica, dimostrando che l’uso del dialetto non è confinato soltanto a composizioni che abbiano soggetto prosaico, ma può esprimere come e meglio della lingua ufficiale, stati d’animo e sentimenti alti ed elevati.
Il secondo apportò al dialetto una specie di rivoluzione: adattò lo scritto al parlato comune, che si era addolcito, italianizzato, forse “imborghesito” rispetto a quello del Belli.
E’ quello di Trilussa il romanesco più vicino al nostro: che si parla ancora e viene capito dai padri e dai figli. Ben distinto dal gergo borgataro e cinematografaro che svilisce chi lo parla e distorce l’immagine di Roma e dei romani.
Ricordiamo Leopoldo Fregoli, che vinse il primo festival della canzone romana, legato alla festa di San Giovanni: ha aperto la strada a tutti quei musicisti (primo fra tutti Romolo Balzani) che hanno lasciato un patrimonio musicale che ancora oggi documenta i sentimenti, la storia, la lingua, dei romani dell’epoca.
Nel suo libro, Rossella de Rita ha descritto in maniera precisa le vicende del Monte: pensiamo alla gente che ha vissuto (spesso, sulla propria pelle) i rivolgimenti dell’Istituto; ai luoghi scomparsi; alla vita dei romani di allora. Solo così potremo apprezzare quanto rimanga di una certa romanità: quella romanità a portata di mano per chiunque venga da qualsiasi posto: facile da assorbire e profonda e vera anche in chi non sia nato entro le mura o non abbia alle spalle le classiche “sette generazioni”.
Questa filosofia di vita, questo orgoglio di appartenenza che pervade i “romani veri” anche non nativi, rappresenta il senso e l’essenza di questa città unica e meravigliosa.
Ringrazio Rossella per aver aperto una finestra da cui poter osservare un passato che è più vicino di quanto si creda.

Maurizio Marcelli
(Presidente dell’ Accademia Romanesca)

IL MONTE DI PIETA’
NELLA ROMA DI FINE OTTOCENTO
di Maurizio Marcelli